La difficile alternativa all'insostenibile portato della CRESCITA ECONOMICA ILLIMITATA
di Francesco Caracciolo

È pressoché universale l’assiomatica convinzione che la crescita economica è e deve essere illimitata. Più che nel passato, dagli ultimi decenni del Settecento in cui ebbe inizio la rivoluzione industriale, essa fu oggetto di un culto particolare. Nei paesi evoluti si mirò a realizzarla a tutti i costi. Fu il fine indiscutibile da conseguire e vi si riuscì dove più dove meno. Le istituzioni, l’opinione pubblica e la scienza constatarono sempre che i suoi requisiti sono indispensabili e non poterono farne a meno. In ogni paese, non trascurarono di potenziare il prodotto interno lordo e i suoi annessi e connessi. La crescita economica fu sempre ed è continuo aumento della produzione di beni e servizi, del profitto, del reddito pro capite e nazionale, della ricchezza materiale, di tutto ciò che può tradursi in un correlativo sviluppo, nel soddisfacimento dei bisogni spirituali e culturali dell’uomo e nella sua elevazione. Ma la crescita economica non è solo questo. La produzione in continuo aumento stimola i bisogni dei consumatori e i consumi dei suoi prodotti. Come la produzione, bisogni e consumi crescono a dismisura e divengono ipertrofici. Il loro continuo ed eccessivo aumento si definisce benessere ed è sotto gli occhi di tutti e si può constatare che siffatto benessere procede con l’aumento della corruzione del costume di fruitori e consumatori, con il lassismo, con la mollezza, con i vizi, con l’incapacità di una parte crescente della popolazione di sopportare la fatica, di dedicarsi al lavoro, di procreare. Non si può certo sostenere che tanta degenerazione coesista soltanto per caso con il benessere e che invece non sia un suo effetto immediato. È troppo evidente che essa cresca con il procedere della crescita economica. È evidente in luoghi e in tempi diversi, dove e quando più o meno la crescita economica si accompagnò con la degenerazione. Questo avvenne sia quando la crescita si ebbe in un clima di forza e di coercizione, come nelle società antiche e primitive, sia quando essa promanò dal razionale investimento di capitale. Oggi, terzo decennio del terzo millennio, il nesso è accertabile in tutti i paesi evoluti, dall’Europa all’America, all’Asia, all’Oceanica, dove è più o meno palese o strisciante una profonda crisi esistenziale. Certo, sono diverse le cause della crisi e chi scrive ha cercato di indicarle e di esaminarle nel suo Mali estremi del 2016, ma la causa economica non è secondaria e cerchiamo di riassumerla.

I portati della crescita economica, che promanano dai crescenti bisogni dei consumatori e dai loro eccessivi consumi, sono anche i suoi mezzi di sussistenza, di sostegno a se stessa. L’aumento della produzione di beni, dei bisogni e delle esigenze dei consumatori e dei loro consumi condiziona l’esistenza di molta parte della popolazione. In essa il superfluo diviene consueto, si stabilizza l’insoddisfazione, cresce l’incapacità di accettare di svolgere qualsiasi lavoro e di sopportare la fatica, aumenta il numero di coloro che risultano inattivi e di disoccupati sovente fittizi, diminuiscono le nascite e si ha ovunque nei paesi evoluti l’insufficiente crescita o la crescita zero o la decrescita numerica della popolazione. In essi, diminuisce ancor più la quota di popolazione attiva ed è insufficiente la capacità di questa di sostenere la crescita economica. Nasce la necessità di colmare l’insufficienza integrando la popolazione attiva mancante e, per colmarla, di ricorrere all’importazione di manodopera, di immigrati. La popolazione attiva così integrata sostiene la crescita economica divenuta intanto ancor più indispensabile perché con il suo prodotto bisogna ora mantenere la popolazione attiva e produttiva, la popolazione che si è resa disoccupata, quella inattiva e la popolazione immigrata che è giunta dall’estero. Il maggior carico, che la popolazione attiva e produttiva così si addossa, sostiene la crescita economica, che diviene ancor più necessaria e impossibile una sua pur minima momentanea interruzione o diminuzione.

I portati della crescita economica sono dunque mezzi che sostengono se stessa. Questo processo circolare, che parte dalla crescita economica e torna alla crescita economica, può riuscire incomprensibile, e lo è ancor più se si constata che una parte della popolazione di alcuni paesi importatori di manodopera emigra e si reca altrove in cerca di lavoro. In Europa l’emigrazione avviene da paesi del sud verso alcuni del nord, dall’Italia, dalla Spagna, dalla Romania verso la Germania e il Regno Unito. Dall’Italia sono emigrati circa 160 mila persone nel 2020 e ne sono giunte dall’estero circa 248 mila. Il flusso verso l’estero è sempre aumentato: da circa 40 mila emigrati nel 2010 a circa 122 mila nel 2019. A emigrare sono in massima parte giovani di cui molti laureati.

Nei paesi progrediti coesistano dunque combinazioni inconciliabili. In alcuni di essi diminuiscono le nascite e, con esse, la possibilità di disporre di una popolazione attiva e produttiva adeguata alla necessità della crescita economica e produttiva. Si profila lo spettro della carenza di braccia, di forza lavoro, e della loro insufficienza a fronteggiare le esigenze dell’economia e della produzione. Impera la convinzione che occorra integrare la popolazione attiva mancante ricorrendo all’importazione di una corrispondente quota di forza lavoro dai paesi arretrati che ne sono esuberanti, non afflitti dalla denatalità. Si impone la necessità di continuare a sostenere la crescita economica illimitata, protesa a superare sempre se stessa in un’incessante competizione, in una vicendevole corsa di emulazione, con i necessari mezzi che essa stessa si procura.

Emerge uno stato di cose che non si può definire sostenibile, specialmente se si constata quel che continua a verificarsi. Il numero degli abitanti attivi e produttivi resta pressoché invariato o forse diminuisce, nonostante l’apporto dell’immigrazione e in virtù dell’impiego della tecnologia. Rimane pressoché immutata o forse aumenta la parte di popolazione inattiva, di fittizi disoccupati e di studiati assistiti. L’economia cresce e deve continuare a crescere e a produrre sempre più beni e servizi da destinare al mantenimento delle due parti della popolazione, l’attiva e l’inattiva, al soddisfacimento dei suoi bisogni e al fisiologico o patologico aumento dei suoi consumi. L’afflusso di immigrati equivale, più o meno, al flusso di emigrati all’estero. L’apporto del loro afflusso contribuisce a mantenere anche la popolazione autoctona inattiva e quella improduttiva e presunta tale. Quell’afflusso deve dunque proseguire perché contribuisce a sostenere l’indispensabile crescita economica, da realizzare a tutti i costi e con ogni mezzo. E mentre prosegue l’afflusso di immigrati, continua pure il flusso di emigrati e cresce la consistente parte della popolazione idonea ad essere attiva, ma che di fatto risulta inattiva, disoccupata e improduttiva, anche secondo le leggi e le istituzioni e secondo i suoi propri capricci.

È assurdo che nell’ambito dell’economia e della società di un paese possano coesistere andamenti del genere, opposti e in stridente contrasto. Parte della popolazione è attiva e produttiva, parte risulta disoccupata ed è mantenuta, parte emigra e un’altra parte, quasi equivalente all’emigrata, deve essere costituita mediante l’importazione di stranieri. Nonostante milioni di disoccupati e centinaia di migliaia di emigrati, i paesi progrediti ricorrono all’apporto di popolazione da aggiungere a quella esistente. Questo è avvenuto finora e non ci sono indizi che inducano a prevederne un mutamento. Eppure la continua immigrazione alimenta il sovrappopolamento, mantiene eccessivamente alto il livello demografico di spazi vitali di solito angusti. Non solo, ma tanti stranieri si rivelano incapaci di integrarsi, sono della più diversa etnìa e provenienza, eterogenei per formazione e cultura. Con il loro inadattamento travolgono l’identità, rompono la coesione e alterano il modo di vivere e il comune sentire di comunità e di popoli interi. In molti casi la loro condotta è dirompente: pratica e incrementa il crimine e diffonde la letale corruzione facendosene utile strumento. Molti altri immigrati formano l’esercito di forza lavoro e integrano quella che manca nonostante i numerosi disoccupati e i molti emigrati.

I portati contrastanti di siffatta crescita economica non sorprendono. Anche i mezzi impiegati che la crescita economica genera e i danni che quei mezzi producono passano inosservati. Non è neppure sorprendente il circolo vizioso che si forma. L’economia deve crescere e per crescere deve produrre sempre più beni. La maggiore produzione di beni stimola i bisogni dei consumatori e i conseguenti necessari consumi. I crescenti consumi richiedono maggiore produzione, cioè continua crescita dell’economia. Si perpetua così un circolo che dalla produzione in perpetuo aumento torna alla produzione che deve continuare ad aumentare. E il circolo si perpetua con i mezzi che promanano dalla stessa crescita economica, cioè con i milioni di immigrati, con i numerosi famelici consumatori, con gli altrettanto numerosi spompati scansafatiche. Con questi mezzi la crescita economica alimenta se stessa. Ed è universale convinzione che questa crescita illimitata sia indispensabile, un processo fisiologico, e debba proseguire anche per promuovere sviluppo e progresso sociale e civile.

Finora, specialmente nei precedenti due secoli, la crescita economica produsse ricchezza. Ovunque, e in particolare nei paesi progrediti, aumentarono Pil, redditi, profitti, consumi. Aumentarono benessere, suoi derivati, annessi e connessi: dalla sovrappopolazione e derivante ristrettezza dello spazio vitale alle abitudini malsane di una parte crescente degli abitanti. Questi portati della crescita economica che si verificò finora possono certo progredire finché non muteranno le condizioni interne nei singoli paesi. E le condizioni interne dei paesi progrediti sono già mutate. In essi lo spazio vitale è angusto e sovrappopolato, i consumi sono cresciuti a dismisura, la tecnologia sta sconvolgendo il modo di produzione e incide sull’occupazione. È impossibile pensare che si possa andare oltre i limiti cui si è giunti. In queste condizioni la crescita economica non può proseguire continuando ad alimentare se stessa, a scapito di ogni altra esigenza. Sorge la necessità di rimodellare l’economia adeguandone la crescita alla disponibilità di risorse umane esistenti nei singoli paesi o comunità. Per riuscirci bisogna che la parte della popolazione che risulta disoccupata divenga attiva e produttiva, che gli emigrati preferiscano tornare e restare a lavorare nei propri paesi e che il ricorso all’apporto degli immigrati sia ridotto al minimo, a poche decine di individui.

Se sarà possibile realizzare questa sistemazione, la conseguente crescita dell’economia sarà sostenibile, risulterà dall’impiego delle risorse umane esistenti nei singoli paesi. Cesserà l’impellente esigenza di far crescere la produzione per mantenere la parte di popolazione attiva, integrata dall’apporto di immigrati, e quella che risulta disoccupata. In molti paesi progrediti persisterà la tendenza alla denatalità. E questa tendenza alla diminuzione delle nascite e quindi della popolazione non deve essere più ritenuta una sciagura da evitare per non compromettere la crescita economica. I paesi progrediti sono sovrappopolati. La popolazione del pianeta supera gli otto miliardi di esseri umani nel terzo decennio del terzo millennio. Si prevede che ne conterà il doppio a metà del secolo. Si può pure prevedere che se non si scopriranno nel frattempo altre risorse la sua sussistenza sarà problematica. La diminuzione della popolazione del pianeta di un terzo o della metà si può pertanto non ritenere una sciagura. Al contrario, è auspicabile che essa si verifichi. Se la popolazione del mondo diminuisse da otto miliardi a quattro miliardi di esseri umani, costoro si avvarrebbero delle loro proprie risorse che destinerebbero a una crescita sostenibile dell’economia e non sarebbero afflitti dalla necessità di dovere produrre a tutti i costi per alimentare la crescita economica illimitata, la morbosa competizione e la febbrile gara universale. La densità della popolazione congrua alle risorse economiche, sociali e territoriali renderebbe l’umanità meno conflittuale e più a suo agio, e più agevole la sua esistenza. Si può prevedere che con il numero degli abitanti diminuirebbe quello delle guerre, delle guerriglie, delle lotte intestine spesso determinate dalle difficoltà dell’esistenza.

Se questo miracolo si verificasse solo nei paesi ricchi e progrediti, questi paesi dovrebbero difendersi dall’assalto del resto del mondo caparbio nel continuare a prolificare allegramente. Certo, bisogna considerare quel che può accadere se diminuisce il numero delle nascite e, in condizioni normali, diminuisce o resta invariato il numero dei decessi. In pochi anni, alla diminuzione delle nascite segue quella della popolazione attiva e produttiva. Alla diminuzione dei decessi segue l’aumento del numero degli anziani, della popolazione non più produttiva che deve essere mantenuta dalla decresciuta popolazione produttiva. Questo duplice processo a forbice rende impossibile che il settore produttivo possa continuare a tenere inalterato il livello del reddito destinato al mantenimento del settore non più produttivo. Anzi si può dire che quel livello del reddito sia destinato a diminuire se persiste l’effetto prodotto dalla diminuzione delle nascite e dall’aumento del numero degli anziani. È questo un effetto che persisterà, se resterà immutato l’attuale stato dei rapporti economici e sociali, cioè se resterà invariato il rapporto tra produttori e non produttori. Ma se questo rapporto cambia, l’insufficiente reddito in diminuzione potrà essere integrato e potrà così essere annullato il danno che provoca la diminuzione dell’apporto dei produttori. E il rapporto può cambiare se molti potenziali produttori che oggi risultano disoccupati saranno indotti ad accrescere il numero dei produttori effettivi. L’apporto dei nuovi produttori prima disoccupati integrerà la parte decresciuta del reddito da destinare al mantenimento della popolazione realmente e necessariamente improduttiva. La parte mancante del reddito sarà così integrata dal reddito che produrranno milioni di disoccupati fittizi, che riprenderanno a svolgere un lavoro produttivo. Se questo avviene, la parte del reddito oggi destinata al mantenimento di costoro e quella da essi prodotta saranno destinate al mantenimento della popolazione necessariamente improduttiva. L’apporto dei disoccupati che divengono produttori ha pertanto una doppia valenza: libera e rende disponibile il reddito prima destinato al loro mantenimento e vi aggiunge quello che essi produrranno. Le due parti di reddito integreranno quella destinata al mantenimento della popolazione inabile, necessariamente improduttiva. In queste condizioni la crescita economica sarà sostenibile.

Nei paesi progrediti la popolazione che diminuisce di un terzo o della metà continuerà a far crescere l’economia, ma la crescita sarà sostenibile, il risultato dell’impiego e dell’impegno delle sole risorse umane autoctone. L’economia non dovrà più crescere per mantenere l’eccessivo numero di abitanti in parte disoccupati e in parte provenienti dall’estero. Al contrario, essa potrà crescere tanto quanto sarà reso possibile dall’impiego e dall’impegno della popolazione esistente, attiva e non più in parte disoccupata. Se questo avverrà, la crescita economica non dovrà più essere realizzata con ogni mezzo e a tutti i costi e non condizionerà più l’andamento demografico e il modo di vivere dei cittadini, ma sarà sostenibile, il possibile portato delle risorse umane esistenti.

Se tutto questo fosse stato fatto, se tutto questo c’è o ci sarà la capacità di farlo, non c’è e non ci sarà bisogno di escogitare, di inventare e di proporre contraddittorie soluzioni suicide, cioè non c’è e non ci sarà bisogno di progettare di importare decine o centinaia di migliaia di immigrati l’anno per potenziare e far progredire l’economia. Specialmente in Italia, non ci sarà bisogno di recepire quanto inventano, immaginano e progettano a prescindere le infallibili sinistre, taluni esponenti dell’establishement per interessi o per ignoranza e parte dell’opinione pubblica plagiata e rassegnata.