Il 13 febbraio 2021 il dottor Mario Draghi, ex governatore della Bce, sostituisce l’avvocato Giuseppe Conte alla guida del rinnovato governo italiano. La situazione economica e finanziaria del Paese è disastrosa, accresciuta a dismisura dalla dilagante pandemia virale. All’enorme debito pubblico si aggiungono i fallimenti di molte imprese, la notevole disoccupazione e la crescente povertà. L’unica via d’uscita a cui si guarda è l’apporto che potrà venire dal cospicuo aiuto finanziario promesso dall’Unione Europea. Ma la promessa è condizionata. L’Europa subordina la concessione del suo aiuto alla garanzia che darà il governo italiano di procedere a precise riforme strutturali (delle finanze, della giustizia, dell’amministrazione, dell’istruzione) mediante il razionale impiego delle risorse che riceverà. L’impellente esigenza di ottenere gli aiuti promessi (a fondo perduto e in parte a prestito) procedendo alla realizzazione delle riforme impone la sostituzione del fallimentare governo in carica con un governo autorevole, credibile e capace di attuare appunto quanto è indispensabile. Al presidente di Consiglio Giuseppe Conte succede Mario Draghi, un uomo di indiscutibile valore. Nel precedente suo ruolo di governatore aveva dato eccellente prova della sua competenza e capacità di muoversi con grande padronanza e originalità nel mondo della finanza. E in Italia c’era estremo bisogno di uscire dal disastro non solo finanziario e di porre mano alle riforme. Draghi era l’uomo giusto. Di lui non si poteva dire con altrettanta certezza che, con quelle di banchiere ed economista, potesse pure vantare provate attitudini politiche. Ma al momento quelle sue competenze finanziarie erano le più utili e indispensabili. Per avere una prova della validità delle sue attitudini politiche bisognava attendere le prime sue azioni, i primi provvedimenti del nuovo governo. Il presidente Draghi formò la sua compagine. In buona parte di essa restarono ministri che avevano formato il vecchio governo (Esteri, Interno, Difesa, Politiche Agricole, Lavoro, Cultura, Salute, Turismo). In modesta parte subentrarono alcuni ministri che erano stati membri dell’opposizione al vecchio governo (Sviluppo Economico, Lega, Amministrazione, Forza Italia). Gli altri ministri (Giustizia, Economia e Finanze, Infrastrutture, Istruzione, Università) erano di estrazione non politica e parlamentare, ma professionale.
Questi ministri provenienti dal mondo delle professioni dovevano la loro nomina alla loro provata competenza. Erano stati giudici, direttori di enti, professori, gente rinomata. Ebbero i ministeri dei settori più suscettibili di riforme. E tutti si avvalsero della fiducia del presidente del Consiglio e del Paese e si misero all’opera per mettere a punto i progetti di riforme di cui c’era bisogno. Prepararono con cura quei progetti, di cui alcuni emendamenti della riforma della giustizia, una delle più importanti e indispensabile per ottenere i finanziamenti europei del Recovery fund, furono approvati l’8 luglio 2021 dal Consiglio dei ministri. Ma questi punti e gli altri progetti di riforma da elaborare e da varare dovranno poi sottostare in ultima istanza all’approvazione del parlamento. E nel parlamento sono in maggioranza componenti che furono sostenitori del passato governo. Pertanto c’è forse da temere che qui, nel parlamento, cada l’asino. Essendo formato in massima parte di onorevoli e senatori che avevano sostenuto il governo caduto, è prevedibile che quella sua maggioranza non sia propensa ad avallare i provvedimenti e le decisioni del nuovo governo. Anzi si può dire che i suoi componenti siano intimamente avversi alle decisioni di un governo che ha soppiantato quello precedente da loro sostenuto. Ma l’attuale governo, anche se da loro finora solo tacitamente avversato, è indispensabile: ha il compito inderogabile di sanare una situazione disastrosa. Lo esige l’Europa e lo attende gran parte dell’opinione pubblica italiana. Pertanto la maggioranza esistente in parlamento non poté finora soddisfare la propria avversione al governo. Dovette fare buon viso a cattivo gioco. Lo imposero le condizioni poste dall’Europa e quelle obiettive della situazione disastrosa in cui erano e sono l’Italia, la sua economia, le sue finanze e il suo sconvolgimento sociale, dovuto anche all’imperversante pandemia.
Il governo Draghi fece i primi appropriati passi nel senso obbligato con la massima competenza. Volse la sua prima azione alla progettazione di un piano che dimostrasse i suoi buoni propositi al fine di ottenere l’ausilio. Il piano riguardava le finanze e l’impiego degli aiuti europei nella realizzazione delle riforme. Al vaglio il piano risultò fondato e l’Europa lo approvò. Ma se esso mirava a salvaguardare le finanze e a garantire il razionale impiego degli aiuti europei, rinviava a dopo l’effettiva realizzazione delle riforme (amministrazione, istruzione ecc.) indispensabili per potere riuscire nel compito di risanamento generale. Il parlamento non diede finora segni di opposizione al piano e al progetto di riforme. Non poteva darne. Avrebbe cozzato contro le aspettative europee e contro l’opinione pubblica allarmata per la disastrosa situazione del Paese. Ma c’è da chiedersi: se Draghi riuscirà a fare allontanare dal Paese il pericolo dell’incombente dissesto e se il Paese potrà considerarsi, per merito del piano del governo, fuori dal disastro, continuerà il parlamento ad approvare i piani del governo e l’attuazione delle riforme intanto elaborate? Non c’è da temere che la maggioranza del parlamento, se constata che l’immediato pericolo è scampato, rivolga i suoi artigli contro il governo quando questo si accingerà a proporre le riforme preparate con tanto impegno e rinviate a dopo? Non è da escludere che il parlamento potrà gettare la maschera ridivenendo aggressivo e disapprovare i provvedimenti del governo, a mano a mano che il pericolo del disastro si attenua, che il ferro rovente si va raffreddando.
Per la riuscita dei sani progetti del governo, se fosse stato possibile, si sarebbe dovuto procedere alla realizzazione delle riforme di pari passo con la loro progettazione e con il piano di risanamento economico e finanziario. Draghi avrebbe dovuto fare, potendolo, l’una cosa e l’altra insieme per evitare eventuali colpi bassi del parlamento. Se Draghi avesse proposto l’attuazione delle riforme, se avesse potuto farlo, nello stesso tempo in cui le ha progettate nel suo piano, avrebbe certo scongiurato la temuta cieca opposizione di molti onorevoli e senatori. Si sarebbe potuto così evitare l’eventuale scatenarsi degli egoismi e delle beghe di partito e di fazione. E non è peregrino presumere che nel parlamento potrà riemergere il consueto caos, la lotta di tutti contro tutti, quando cesserà la remora dell’incombente disastro del Paese, e si potrà tornare a contestare a cuor leggero in nome e per conto della democrazia e della libertà.